La stalla (eteu)

Nelle case tradizionali, “l’eteu: la stalla”, non era separata dal corpo dell’abitazione ma posta a pianterreno, in genere sotto la stanza da letto dalla quale, mediante una botola di legno e una scala interna, poteva scendersi agevolmente per qualsiasi evenienza e accudire gli animali senza dover uscire, specie di notte, all’aperto. Non va dimenticato, inoltre, che la stalla era utilizzata  come latrina dai membri del nucleo famigliare. Durante l’inverno, il tepore che regnava nella stalla, dovuto alla presenza dei capi di bestiame e al calore generato dalla fermentazione de letame, contribuiva in qualche modo a rendere più sopportabile la gelida temperatura della stanza da letto.

Va, inoltre, tenuto presente l’attaccamento dell’allevatore nei confronti del proprio bestiame: quando, ad esempio, in Umbria, si cercò di convincere i contadini a mantenere la stalla separata dalla casa in modo da poter godere di migliori condizioni igieniche, si ottenne la sconcertante ma espressiva risposta che essi preferivano di gran lunga abitare sopra la stalla che lontano da essa, altrimenti non avrebbero più potuto “sentire” gli animali. In effetti, un allevatore esperto è in grado di “decifrare” il verso dei suoi animali,  d’interpretarne il battito degli zoccoli, oppure il rumore delle catene.

La vèilla: durante il lungo e rigido periodo dell’inverno alpino, la stalla, o una parte di essa antistante le mangiatoie detta “gabée”, serviva da luogo serale di ritrovo: il fieno e il letame conferivano all’ambiente un gradevole tepore che permetteva di risparmiare un po’ della faticosa legna tirata giù dai monti con la slitta a mano – la louèdze – la quale poteva essere impiegata soltanto dopo che fosse caduta la prima neve. Per le riunioni serali, la gabée costituiva un’alternativa all’ambiente domestico: in casa, infatti, non mancava in cucina, o nella stanza più grande  – “la poële” – riscaldata dal focolare o dalla stufa, uno spazio confortevole adatto agli incontri famigliari e tra amici. La riunione serale, cui partecipava la famiglia riunita e spesso i vicini, era detta “la vèilla: la veglia”. Quando non c’era l’elettricità, l’ambiente era rischiarato dal tradizionale lumino ad olio – “la litcherna” – la cui fiammella produceva un debole chiarore. Ancor prima dell’introduzione dei lumi a petrolio, detti “grijoú”, e in alternativa ai lumini a olio e alle candele di sego, i più poveri ricorrevano a un metodo autarchico d’illuminazione, conosciuto come  “le tèyon”, utilizzando la corteccia resinosa del pino, o del larice, tagliata in strisce sottili. Nei muri delle vecchie stalle, vi erano piccole nicchie destinate alla raccolta di “én bocòn de teya: un fascetto di strisce di corteccia” da usare, oltre che per far luce,  come esca per accendere al mattino il fuoco nel caminetto. Durante “la veillà” le donne filavano conversando tra loro; gli uomini riposavano chiacchierando o fumando la pipa, oppure occupati in piccoli lavori. Qualcuno, in un angolo, recitava il rosario. Le coppie, sebbene non venissero mai perse d’occhio dai vigili parenti, avevano modo di scambiare qualche parola e, complici le mobili ombre proiettate dall’oscillante fiammella, persino qualche fugace bacio. “La vèilla” offriva al contadino-allevatore un’occasione gradevole da dedicare al riposo e alle relazioni tra vicini. Inoltre – ed è questa una funzione importante di questi incontri serali nelle sere d’inverno – i più anziani trasmettevano il patrimonio tradizionale mediante narrazioni di fiabe, leggende, fatti. Durante “la vèilla”, inoltre, si concludevano affari, si combinavano matrimoni, si stringevano alleanze tra vicini accomunati dalle medesime, stringenti esigenze della vita. Agli inizi del secolo scorso, Guido Rey scriveva:

«Nelle sere del lungo inverno, al fine di una giornata di torpore, in cui, per l’imperversare del tempo, nessuno ha potuto mettere il capo fuori dell’uscio, nella stalla tepida che ha le finestre tappate con la paglia, mentre l’olio consuma lentamente nella piccola lucerna, il vecchio racconta alla famiglia le storie che ha appreso da’ suoi padri» (Rey 1904: 46).

Come accade in ogni riunione, tuttavia, oltre agli aspetti positivi e piacevoli, le vèilla presentavano anche inevitabili aspetti negativi nei quali incorre chiunque abbia a che fare coi propri simili come, ad esempio, la maldicenza, la calunnia, l’invidia, e la concupiscenza. Ecco perché, spesso, nelle sagge leggende di Valtournenche il diavolo – “lo guiablo” altrimenti detto “Cornetta” – s’intrufola nelle “vèilla” avvolto nell’ampio ferraiolo montanaro spruzzato di neve dal quale, in basso, spuntano le estremità villose e gli immancabili zoccoli caprini non protetti dai pesanti “sabot”. Imperdonabile negligenza, quest’ultima? No: non farebbe parte dello stile del diavolo. Si tratta piuttosto di un divieto impostogli dalla Provvidenza in modo che, al pallido chiarore della “litcherna”, qualcuno possa pur scoprire l’identità di quell’ospite intabarrato e taciturno, così difficile da tener lontano dalle umane faccende.

I folletti e le vacche: a proposito di stalle e vacche, in  tutta la Vallée era diffusa la credenza nei folletti (esprì follè): spiritelli burloni, ma non propriamente malvagi, il cui divertimento preferito consiste nel far dispetti agli esseri umani e agli animali domestici:

«Intorno alle mucche v’era una curiosa superstizione. Si diceva che, in certi periodi dell’anno, durante la tempesta, le stalle fossero assalite dagli spiriti folletti. Talvolta questi rubavano le mucche, le portavano lontano (...) per riportarle poi dopo qualche giorno. Talvolta le mungevano e rubavano loro tutto il latte!... Per preservarle dagli attacchi degli spiritelli, si tentava di esorcizzare le mucche, spalmandole con un magico unguento. Per tener lontani i malefici, prima di andare ad abitare in un casolare, vi si bruciava del ginepro insieme con degli stracci e dei pezzetti di vecchio cuoio. Ma era un affare serio lottare coi folletti! Spesso essi stessi si trasformavano in mucche, le quali la notte andavano errando per i pascoli con urli e fischi terrificanti. Erano le cosiddette “vacche spettri”» (Tibaldi Chiesa).

Circa l’uso di bruciare il ginepro, occorre ricordare che, presso molte culture popolari d’Italia e d’Europa, la pianta è ritenuta dotata di potere apotropaico, ossia in grado di allontanare entità spirituali negative e persone intenzionate a compiere malefici. Il ginepro (Juniperus communis) era detto in lingua greca árkeuthos, “che respinge”, dal verbo arkéo (vedi il latino arceo che significa, appunto, “respingere”, “ricacciare indietro”: l’“arce” è il baluardo che respinge il nemico). Al ginepro si attribuivano virtù profilattiche nei confronti delle epidemie contagiose assieme alla virtù di scacciare dalla casa i malefici e le entità malefiche che, specie col favore delle tenebre, si aggirano per nuocere ai dormienti. In Estonia si piantavano siepi di ginepro attorno alle case e si colpivano con rami di ginepro le fessure dei muri attraverso le quali il maleficio e il contagio avrebbe potuto introdursi. In Italia, nel Pistoiese, esisteva un’usanza simile a quella praticata in Estonia: si appendevano alla porta di casa ramoscelli di ginepro. Si credeva che le streghe, prima di introdursi all’interno, sarebbero state costrette a contarne le innumerevoli foglie e l’alba le avrebbe colte intente a quell’operazione costringendole a fuggire. Nel Medioevo si credeva che il ginepro fosse stato benedetto da Dio per aver protetto la Sacra Famiglia, avviluppandola tra i suoi rami fitti ed irti di aculei, durante la fuga in Egitto. La medesima leggenda narra che la Vergine aveva prescelto il ginepro come legno per la croce del Figlio. Le credenze popolari riguardanti il ginepro affondano le loro radici nell’universo religioso precedente il Cristianesimo. Plinio, riguardo al ginepro, esalta la sua capacità di mettere in fuga i serpenti: «Esistono due specie di ginepro, una più grande e una più piccola. Entrambe, bruciate, mettono in fuga i serpenti (...) Vi è anche chi, per timore dei serpenti, si strofina il corpo col succo delle bacche del ginepro» (Nat. Hist. 24, 54-55). In alcune regioni italiane come, ad esempio, Abruzzi, Marche ed Umbria alla porta della stalla si usa appendere un rametto di ginepro per tener lontane le streghe. Le proprietà del ginepro erano conosciute anche nella medicina ufficiale: nel1870, a Parigi, si riuscì ad evitare la diffusione di un’epidemia di vaiolo fumigando gli ospedali col ginepro. Da Plinio e almeno fino a tutto il Rinascimento, si credeva anche che il profumo del ginepro avesse il potere di tener lontane le serpi. Sta comunque di fatto che l’olio essenziale estratto dalle bacche è un efficace repellente degli insetti.