La lavorazione del burro

Ai tempi dell’allevamento tradizionale, ossia fin verso la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in una famiglia composta da circa sei persone e in possesso di due o tre mucche, si lavorava il latte per produrre burro circa due volte a settimana, quando il calderone (tsoudée) da far formaggio era ormai colmo. Quando le mucche avevano partorito, il latte era più abbondante e, dunque, si otteneva una maggior quantità di burro. Così pure, quando le mucche pascolavano all’aperto nella bella stagione, il latte era più grasso e poteva ottenersi burro più abbondante e di miglior qualità. Il burro veniva ricavato versando il latte nelle apposite zangole delle quali esistevano due tipi: la zangola a pistone (beuse) e la centrifuga (beurée). L’operazione era detta “batre lo beuro”. Il pistone veniva azionato velocemente con movimento di saliscendi e una discreta velocità veniva anche impressa alla zangola a tamburo. Una volta che si erano ottenuti circa cinque chili di burro, si provvedeva alla sua fusione per evitare che s’irrancidisse. La fusione, ottenuta a fuoco molto dolce, avveniva adoperando una piccola caldaia di rame (tsoudèón). Per non far fuoriuscire il burro fuso dal recipiente, si usava mettere sul fondo del medesimo un piattino rovesciato. Durante la fusione, si provvedeva a schiumare mediante mestolo in legno (potse) la superfice del liquido asportando la parte più grassa e grossolana. Una volta che il burro fuso era divenuto così limpido da permettere di scorgere il fondo del recipiente, il processo di chiarificazione (beuro coló) era giunto a termine e lo si poteva ormai travasare. Il travaso avveniva in speciali recipienti di pietra ollare, o di terracotta invetriata, detti dol (dal latino dolium). Il burro, specie per la vendita, era anche confezionato in panetti da circa un chilo di peso: il pane di burro era detto baletta. Per tradizione, si usava tracciare il segno della croce sulla baletta utilizzando il manico di un cucchiaio. I pani di burro destinati alla vendita erano decorati, sulla faccia a vista, mediante speciali stampini di legno – alcuni di pregio artistico – incisi con motivi floreali, o animali e col nome della latteria, o del fabbricante. Nel processo di burrificazione nulla andava perduto: il siero rimasto nella zangola dopo ottenuto il burro – detto lo bezé – veniva recuperato per uso alimentare; il residuo scuro (lo llè) rimasto in fondo al paiolo una volta purificato il burro, era utilizzato per insaporire le patate da saltare in padella. Secondo la tradizione, per ottenere una migliore chiarificazione del burro, si preferiva attendere la fase calante della luna, specie gli ultimi giorni prima del novilunio. Se il burro viene fuso a luna crescente tende a bollire presto e disordinatamente, produce molta schiuma e fuoriesce più facilmente dal recipiente. Fuso e travasato sotto il segno zodiacale dei Pesci, inoltre, il burro si conserva per oltre un anno senza irrancidire; fuso sotto il segno d’Ariete, tende ad acquisire uno sgradevole odore; fuso sotto il segno del Capricorno, il burro acquisisce un sapore amarognolo (si usa dire che “diventa duro”: “i vén deur”, espressione che si alterna a “i vèn amer”: “diventa amaro”).

Lo malèficho: per quanto riguarda l’aspetto magico-religioso, prima d’iniziare la lavorazione del burro ci si segnava col segno della croce, oppure lo si tracciava sulla zangola, o sulla centrifuga. Quando, a dispetto della lunga esperienza dell’addetto alla lavorazione e dell’ottima qualità del latte, non si riusciva a ottenere il burro, si sospettava del temuto malèficho indotto da invidiosi, o ancor peggio dalle streghe: per prevenirlo, si versavano alcune gocce di acqua benedetta nel latte prima della lavorazione. Se, nonostante tutte le precauzioni, il burro non si formava, s’infilava nella bocca zangola, o nel tappo nella centrifuga un ferro arroventato. Solo in quel modo, si credeva, avrebbe potuto neutralizzarsi il malèficho e, racconta un’anziana di Cleu, il giorno dopo, veniva spesso a bussare alla porta della stalla una donna del villaggio – quasi sempre una vecchia sospetta di stregoneria – con evidenti segni di scottature sulle braccia o sulle mani.