L'alpeggio e la pastorizia

L’anovelà: nel mese di aprile, quando le condizioni climatiche lo permettevano e il tempo ormai tendeva al bello, si facevano uscire per la prima volta le mandrie dalle stalle per lasciare che, dopo essere stati alimentati col fieno durante sei o sette mesi, gli animali pascolassero la salutare erba novella spuntata dalle ultime nevi. L’anovelà, importante fase che inaugurava il ciclo annuale dell’allevamento vaccino, oltre che a un’attenta osservazione meteorologica, era soggetto al rispetto di antiche regole tradizionali in cui l’elemento magico si mescolava, spesso in modo inestricabile, con la pietas religiosa come, ad esempio, quando il padrone tracciava sulla groppa di ognuno dei capi di bestiame il segno della croce al momento di varcare la soglia della stalla.

La parte del leone, però, era svolta dall’astrologia popolare, complesso di prescrizioni e tabù basato sull’osservazione dei segni zodiacali oltre che delle fasi lunari, che il patois rende con “plaetta” (parola che rimanda ai pianeti). Per quanto riguarda l’anovelà, si riteneva che se le vacche avessero lasciata la stalla sotto il segno del Capricorno avrebbero ingaggiato tra di loro furibonde liti e il latte prodotto sotto questo segno avrebbe avuto un odore sgradevole.

Era anche sconsigliato fare uscire per la prima volta al pascolo vacche e vitelli sotto il segno dei Pesci o dell’Acquario perché le bestie, tormentate dalla sete, si sarebbero gettate nei corsi d’acqua rischiando di affogare o di contrarre una polmonite. Sotto il segno dell’Acquario, inoltre, le vacche sono soggette a malattie epidermiche consistenti nella degenerazione della pelle e in infestazioni di vermi. Il segno dello Scorpione era considerato sfavorevole all’anovelà: il bestiame sarebbe stato esposto al rischio di ferite e a quello di azzopparsi. Sotto il segno del Leone, il bestiame intento a pascere, attaccato da tafani e vespe, avrebbe intrapreso una fuga pazza e precipitosa che spesso finiva in tragedia provocando rovinose cadute dalle rupi. Secondo alcuni, se l’anovelà avviene sotto il segno dei Gemelli, le bestie invece di sparpagliarsi sui pascoli, tendono a riunirsi a due a due brucando meno. Il segno dell’Ariete, al contrario, è considerato favorevole all’anovelà assieme al segno della Bilancia e della Vergine con qualche eccezione per quest’ultimo in quanto il bestiame tende a nutrirsi specialmente di fiori primaverili rischiando un’alimentazione insufficiente e, quel che è peggio, di produrre latte povero e scarso, inconveniente che si sarebbe invece evitato portando le vacche al pascolo nel segno dell’Ariete: sotto quel fausto segno d’inizio, col quale re Numa aveva decretato l’inizio sacro dell’anno romano, gli animali pascolano gagliardamente recidendo erbe e piante fino all’inizio delle radici e, dunque, ingrassano più rapidamente e le vacche producono ottimo latte.

 Arpà, la salita agli alpeggi estivi. Quando le giornate si facevano più lunghe, il sole più caldo, e di conseguenza le erbe diventavano più scarse e meno nutrienti, le mandrie venivano trasferite dalle vallate ai pascoli montani. Per la partenza della transumanza estiva – in gergo tecnico “monticazione” – un’antica tradizione fissava il 15 di giugno, giorno della festa di San Bernardo “lo patron di montagnar” (lo montagnar è il padrone dell’alpeggio). L’alpeggio (lo arp) era scelto in luoghi d’altura riparati dal vento, immuni dal pericolo di frane o valanghe, che offrissero pascoli rigogliosi e la possibilità di rifornirsi di acqua abbondante. Si badava, inoltre, che la legna necessaria alla lavorazione del formaggio, oltre che alla cucina, fosse reperibile a una distanza ragionevole. La salita delle mandrie agli alpeggi, in patois, era detta “arpà”, verbo che significa “salire all’alpeggio” e che deriva da un’antica radice non-indoeuropea: *arp– col significato di “monte”. Dalla medesima radice deriva anche l’italiano “Alpe”, oltre a una famiglia di termini patois connessi all’alpeggio quali, appunto, arp; arpà; inarpa: “salita agli  alpeggi estivi”; arpó: “giorno in cui si sale agli alpeggi”; arpiàn, “personale addetto all’alpeggio”, dèzarpa, “discesa autunnale dall’alpeggio”.

Gli alpeggi: lontani dai centri abitati, erano ubicati a differenti quote d’altura in modo da poter disporre di pascoli sempre freschi e ubertosi. Le condizioni climatiche determinavano lo spostamento di pastori e mandrie da un alpeggio a un altro dapprima verso zone poste a quote più alte e più fresche, quindi, col declinare dell’estate, verso zone più basse e meno fredde.

Lo mayèn (da mai, “maggio”) era l’alpeggio posto a quota più bassa rispetto agli altri alpeggi, al disotto dei 2.000 metri. Le famiglie che potevano disporre di un mayèn vi portavano le loro mandrie già nei mesi di maggio-giugno. Il termine “mayèn” sopravvive nel toponimo che designa il villaggio di Maèn sorto nel luogo cui, un tempo, salivano i pastori dal fondovalle, o da Antey. Gli alpeggi posti a quota meno elevata, erano detti anche “pi”: “lo pi” significa “il piede”.

L’alpeggio estivo di montagna, detto “la móntagne”, era situato in una fascia d’altura compresa tra i 2.000 e i 2.500 metri, disponeva di pascoli molto estesi in cui potevano pascolare assieme anche cento vacche ed era frequentato nei mesi di giugno-luglio. Nei periodi più caldi, le mandrie erano condotte ai pascoli posti a quota più alta ai piedi delle cime, quindi con clima più temperato e coperti da erbe più verdi. Il pascolo d’altura era detto “lo tsa”, o “lo dza” (a Valpelline, “cha”); nelle antiche denominazioni, il termine designava uno spazio comune, in cui non si falciava, usufruibile come pascolo da tutti i proprietari di mandrie. Sui pascoli d’alta montagna, situati a quote superiori ai 2.500 metri, si costruivano appositi alpeggi detti “tramal”, nome che indica la disposizione a schiera delle costruzioni alpestri. I tramal erano frequentati nel periodo più caldo, ossia nel mese di agosto.

L’edificio – lo chalet – costruito sull’alpeggio con muri di pietre a secco, nella sua forma tradizionale, ospitava assieme il personale e il bestiame e consisteva in una grande stalla (la teupie, da tepà, “coprire”), molto estesa in lunghezza, non eccessivamente larga, costruita con pareti piuttosto basse, coperta da assi facilmente trasportabili. Quando era possibile, si addossava l’edificio a una parete rocciosa. L’altezza ridotta e la moderata larghezza della costruzione permettevano un’efficace difesa da possibili valanghe (frequenti nei mesi estivi) e, allo stesso tempo, offrivano una ridotta superficie ai forti venti. Negli alpeggi più importanti, il tetto era coperto dalle lose: le tradizionali lastre di pietra. Le finestre erano assenti, o ridotte ad anguste aperture in modo da evitare la dispersione del calore, specie durante le freddi notti alpine, poiché la bassa temperatura avrebbe fatto diminuire la produzione lattea. Il pavimento (lo solàn) dell’unico ambiente che serviva da stalla e da alloggio degli arpiàn, il personale, era coperto da spesse lastre di pietra (lè llarpà); nel mezzo del pavimento correva un canale (la guioué) che permetteva di convogliare all’esterno il letame il quale veniva raccolto in una speciale fossa destinata a letamaio: la pècheu-a. Il pavimento era tenuto pulito usando la ramazza e il raschiatoio (lo rablo) e veniva mantenuto asciutto spargendo fieno sminuzzato (lo flezén) “rèdzassé lo solàn” significa “asciugare il pavimento della stalla col fieno”.

Lungo uno dei lati dell’alpeggio, correva un soppalco di legno piuttosto basso posto direttamente sotto le travi del tetto, destinato ai pagliericci degli arpiàn. Questo soppalco-dormitorio era detto “trapèi” e il tavolato, composto da assi smontabili, veniva coperto da uno spesso strato di erbe secche prelevate dagli acquitrini (lè létsée).

In ogni alpeggio era previsto un ambiente detto “la mézón”, “cucina”, adibito alla lavorazione del formaggio.

Il personale: un tempo, negli alpeggi estivi, esisteva una distribuzione differenziata delle varie funzioni di cui erano incaricati vari addetti la quale, a seconda dell’importanza della funzione svolta da ognuno degli arpiàn, determinava una vera e propria gerarchia.

Lo dèvàn berdzé, alla lettera “il pastore che sta davanti”, sceglieva ogni giorno il terreno su cui portare al pascolo la mandria. La sua funzione, con la competenza fornita dalla lunga pratica, permetteva di economizzare al meglio lo sfruttamento delle risorse naturali: funzione di primaria importanza perché non solo la salute del bestiame, ma anche il sapore e la qualità del formaggio sono risultato di un’adatta pastura. Lo dèvàn berdzé, inoltre, era incaricato di distribuire i lavori tra i vari membri del personale e di preparare le razioni di sale da somministrare alle vacche. Nello svolgimento delle sue mansioni, era accompagnato da un assistente fac-totum: un pastorello detto “lo tchit”.

Lo sècón berdzé era un pastore addetto anche alla mungitura.

Lo freté (francese fruitier) era l’esperto della lavorazione del formaggio, il casaro, dalla cui perizia dipendeva il buon esito del lavoro estivo. Oltre alla produzione del formaggio ad ogni ciclo di mungitura, lo freté sorvegliava la mungitura stessa ed era anche incaricato della cucina per il personale.

Lo coilà, o “colatore” (francese couler), era incaricato del trasporto del latte dalla stalla al locale adibito alla lavorazione del formaggio dove il latte appena munto veniva filtrato e versato nel capace calderone adibito alla lavorazione del formaggio: la tsoudée. Quando le vacche erano al pascolo, lo coilà svolgeva anche la funzione di pastore.

Lo sailloù, o “salatore”, era incaricato della delicata fase della salatura delle fontine e della loro stagionatura e pulizia; provvedeva ogni giorno a voltare le forme salando la superficie esposta all’aria libera mediante una salamoia.

Lo seudjé era il nome del garzone addetto al rifornimento di legna utilizzata per bollire il latte, per alimentare la cucina e i fuochi della sera. Oltre al trasporto, accatastamento e taglio della legna, lo seudjé si occupava della pulizia della stalla e del trasporto del letame; aiutava il casaro nella fase della mungitura; manteneva puliti i pascoli raccogliendo pietre e sassi con i quali costruiva dei muretti a secco ai lati dei prati e dei sentieri. Un altro compito importante de lo seudjé consisteva nell’eseguire lo laccà: lo spargimento del letame sui pascoli che circondavano gli alpeggi. Prelevato il letame – la bouza – dalla fossa di raccolta, provvedeva a frantumarlo usando una speciale zappa bidente (lo éterpa) per poi spargerlo in modo uniforme mediante una sorta di ramazza – lo tréé – che serviva anche da rastrello, costruita con rami di ginepro e di ontano intrecciati assieme.

L’évioù (termine derivato da éve, “acqua”) era il nome dato all’addetto all’irrigazione dei pascoli per la quale l’acqua veniva convogliata in appositi canaletti (ru) che attraversavano i prati.

Per tutto il personale impiegato all’alpeggio, il contratto prevedeva 105 giorni lavorativi: da San Grato a San Michele Arcangelo.

Negli alpeggi con maggior numero di personale non mancavano dei ragazzini che imparavano il mestiere di pastore dando una mano dove e come potevano: questi giovanissimi apprendisti, con un termine non esente da una buona dose di nonnismo, erano detti “lappa-bora”, come a dire “quelli che leccano la bora”, la schiuma del latte appena munto.

Negli alpeggi, la sveglia era data alle tre del mattino, ora in cui entravano in funzione gli addetti alla mungitura e al trasporto del latte fino al luogo in cui veniva preparato il formaggio e la sua consegna agli addetti alla preparazione del burro, altra attività importante per l’economia locale. Mentre si svolgeva la mungitura, i pastori portavano le mandrie al pascolo assegnato loro in precedenza da lo dèvàn berdzé. Alle dodici, i pastori rientravano all’alpeggio, si pranzava e a tutto il personale era concessa un’ora di riposo. Il pranzo all’alpeggio consisteva soprattutto in polenta accompagnata da brossa, latte, ricotta e latticello. Qualche volta, veniva distribuito un pezzo di fontina. Per cena si preparava una minestra spessa facendo cuocere nel latte, con eventuale aggiunta di acqua, della pasta o del riso insaporito col sale. Secondo il costume, i pastori, consideravano “buona” la zuppa di latte la cui consistenza permetteva al cucchiaio di restar dritto.

Il personale addetto ai lavori sugli alpeggi a gestione professionale era esclusivamente maschile, ma, specie nei tempi andati, non era infrequente che l’intera famiglia si trasferisse in montagna nel periodo estivo, comprese le donne e i bambini. L’Abbè Gorret così ricordava i tempi della sua infanzia sugli alpeggi di Cheneil:

«Quanti dolci ricordi fa riaffiorare alla mente Cheneil! Era uno châlet gestito da un consorzio di ventisette privati. Un tempo, le madri vi si recavano a trascorrere l’estate coi loro bambini, e lassù io sono stato allevato. Le nostre madri non s’allontanavano da casa, badavano al latte e ai polli, rappezzavano i nostri vestiti; noialtri bimbi facevamo tutti quanti i pastori. Come ricordo ancora quei giorni! Appena spuntato il dì, le nostre mamme ci chiamavano, ci facevano pregare e prendere la colazione allo stesso tempo; quando s’alzava il sole andavamo a mangiare la nostra bianca zuppa sulla roccia davanti alla casa, ci rimpinzavamo le tasche di pane e partivamo, allegri e affaccendati, dietro le nostre vacche. Arrivati sui pascoli, quale gioia, che giochi chiassosi (...) Alla sera, riportavamo a casa le vacche e l’indomani i nostri divertimenti iniziavano di nuovo».

Il giorno di San Grato (7 settembre) i padroni che avevano affittato le vacche al personale di stanza negli alpeggi (le-z-arpiàn), salivano in montagna a riscuotere il compenso dell’affitto il quale era retribuito mediante burro e formaggio. Se la mucca non aveva prodotto latte fino al giorno di San Grato, o avesse smesso di produrlo prima della festa, il gestore dell’alpeggio non era tenuto a compensare il padrone; se invece la mucca aveva prodotto latte, il suo padrone era ricompensato in natura, con la fontina prodotta o, in tempi più vicini a noi, in denaro. Per fissare il compenso, il giorno dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno) si provvedeva a pesare il latte di ogni mucca mediante una misura minima detta “lo cartéon”, corrispondente a due litri di latte al giorno. Se la mucca produceva una maggior quantità di latte, il gestore dell’alpeggio era tenuto a compensare il padrone della stessa con cinque chili di fontina e cinque di ricotta (sèa) per ogni litro di latte eccedente la misura fissata da lo cartèon. Il compenso veniva retribuito, per tradizione, in due rate: in parte il giorno della festa di San Grato, in parte in occasione della festa di San Michele Arcangelo.

I pastori festeggiavano il loro santo – “Sèn Gra lo patron di tchit: patrono dei pastorelli” – mettendo mano alla dispensa e, soprattutto, alla riserva di vino e di grappa. Ormai, come recitava un vecchio detto, mancavano pochi giorni al ritorno alle loro case: «Sèn Gra, 15 dzor, no sèn ià: San Grato, quindici giorni e ce ne andiamo».

Quando il gestore non era intenzionato a usare l’alpeggio l’anno seguente doveva comunicare la sua decisione prima della festa di San Grato. La cessazione della locazione dei prati da fieno o da pascolo nelle zone vallive, invece, doveva essere comunicata ai proprietari dei campi l’anno precedente, o comunque prima di Natale.

La dézarpa: dal 20 a 30 di settembre, dagli alpeggi estivi le mandrie erano fatte ridiscendere a valle. La discesa – dézarpa – coincideva per tradizione con la festa di San Michele Arcangelo (29 settembre), sempre che avverse condizioni atmosferiche inducessero ad anticipare il rientro:

Lè vatse, Sèn Bernar lè prèn

e Sèn Mètsé lè rèn

«Le vacche San Bernardo le prende e San Michele le rende», si usava dire tra i pastori.

Per tradizione, non si effettuava la dézarpa nei giorni di martedì e venerdì, ritenuti nefasti nei confronti di qualsiasi attività da intraprendere. I più devoti tra i pastori evitavano anche la domenica in modo da osservare il precetto del riposo festivo. Vi è inoltre da dire che, quando la famiglia era stata colpita da un lutto grave, la dézarpa avveniva senza il festoso concerto dei campani, oppure si lasciavano al collo delle vacche i campani più grossi, dal suono cupo e profondo che produce in chi ascolta un brivido di mistero, togliendo i campani più piccoli  i quali emettono una sonorità argentina e festosa. Vi è da dire, a questo proposito, che la dézarpa offriva l’occasione per una grande festa cui partecipavano pastori e mandriani assieme a tutta la gente del luogo. Sin dalle prime ore del mattino, le mandrie iniziavano a percorrere, ordinatamente, le vie dei paesi e dei borghi accompagnate ciascuna dal padrone della mandria, o dal titolare dell’alpeggio che le aveva prese in affitto per il periodo estivo. Arrivavano per prime le mandrie provenienti dagli alpeggi più vicini, poi quelle che avevano lasciato i più lontani o i più impervi. Ogni vacca portava al collo il proprio campano piccolo o grande, dai più squillanti a i più gravi. La vacca cui le altre obbedivano, la vincitrice nei duelli in cui le madri più forti e più coraggiose si affrontavano per ottenere il comando della mandria – “la réa di corne: la regina delle corna” – portava al collo il campano più bello appeso al grande collare di cuoio lustrato col sego, ammiccante con le sue vistose borchie tirate a lucido. Il padrone della mandria marciava solenne dietro alle proprie bestie scandendo il passo col lungo bastone da pastore, accompagnato dai cani. La gente del villaggio, assiepata ai lati delle strade, salutava i compaesani che tornavano a valle, applaudiva al loro passaggio lodando ad alta voce la salute e bellezza del bestiame nutrito ai verdi pascoli delle alture. Lungo la strada della dézarpa erano allestiti piccoli chioschi in cui ci si ristorava con un goccio vino, una fetta di pane, un assaggio di salumi offerti dalle famiglie del luogo. La grande, solenne discesa delle vacche dai monti, infatti, era una festa vissuta da tutta la comunità, nessuno escluso, compresi i forestieri. Per ore ed ore, ancora oggi, le mandrie sfilano per le vie di Valtournenche dirette alle loro stalle e il suono discorde e ininterrotto dei campani, nella frizzante aria settembrina, scende lontano dai monti, s’inoltra nelle gole e nelle forre ancora immerse nelle ombre azzurrine e fredde del mattino, riecheggia rimbalzando tra le rocce, si ripercuote tra i muri delle vecchie case. Il variegato clangore dei sonori campani di Chamonix si mescola al calpestio fitto delle bestie, ai muggiti, al polverio che si colora di sole, agli applausi degli spettatori, ai richiami dei mandriani, alle grida d’incitamento e di lode. Sul sottofondo, il canto del Marmore, il torrente che ha accompagnato col suo limpido scorrere ogni ora della storia di questa gente. E  si fonde al suono festoso dei bronzi che, dall’alta torre campanaria annunciano la festa del grande Arcangelo il quale, nella sua armatura splendente da legionario romano, la spada sguainata, protegge insonne sotto le sue ali possenti i figli di Dio e i pastori con le loro bestie. La discesa dei monti avviene nel giorno della sua festa non solo come atto di omaggio, ma per essere protetti dall’Arcangelo contro i pericoli in agguato sui sentieri montani: la vipera gonfia di veleno che spia immobile tra le pietre; la frana improvvisa sospinta dai diavoli rifugiati tra le rupi remote cui non giunge il suono benedetto delle campane; la tempesta scatenata dagli spiriti maligni che cavalcano i nembi; il passo in falso che fa precipitare la bestia tra i dirupi, o la puntura del tafano che la fa impazzire. Come a Valtournenche e in tutta la Vallée, in altre regioni d’Italia la discesa delle mandrie dai monti avviene nel giorno della festa dell’Arcangelo che, quando l’uomo ancora non era, difese con le armi in pugno il varco d’accesso ai cieli dall’assalto degli angeli ribelli.

Riassumendo, le relazioni tra festività dei santi e attività connesse all’allevamento vaccino sono le seguenti:

ATTIVITA' SANTO   DATA 
 arpà S.Bernardo  15 giugno 
 stima del mese SS. Pietro e Paolo   29 giugno
 riscossione del compenso  S. Grato  7 settembre
 dézarpa  S. Michele Arcangelo  29 settembre